Davide Sapienza (Monza, 1963), è uno scrittore, traduttore e giornalista italiano, tra i massimi studiosi internazionali di Jack London. Dopo essersi dedicato alla critica e all’editoria rock ha iniziato un percorso autoriale simbiotico con la Natura, che non solo esplora da narratore ma di cui è strenuo difensore (a questo proposito ricordiamo i suoi scritti Diritti della Natura Italia e Scrivere la Natura). Tra i suoi titoli di maggior successo troviamo I diari di Rubha Hunish e La Valle di Ognidove. Da poche settimane la collana Zoom di Feltrinelli ha pubblicato la sua raccolta di poesie intitolata Il durante eterno delle cose, a cui abbiamo dedicato questa intervista.
Ho una domanda preliminare: per anni sei stato un giornalista musicale, diventando una delle firme di punta della critica rock italiana; ora invece ti dedichi anima e corpo al rapporto con la Natura in diverse forme, dalla narrativa alla poesia al giornalismo fino al ‘trekking d’autore’, facendo spesso rientrare la musica in una dimensione più mistico-naturalistica. Quando e soprattutto come è avvenuta la svolta?
Devo dire che la svolta è stata in realtà un percorso. Sapevo che avrei dedicato un po’ di anni al lavoro nel giornalismo e nell’editoria rock per poi passare alla scrittura pura, sono cose che sentivo dentro sin da adolescente. Dunque, ho solo atteso il momento giusto. Ma io non vedo differenze, la musica è un’espressione magnifica di tutto ciò che rappresenta la vita e il nostro ruolo dentro la natura.
So anche che dalla città hai deciso di trasferirti in montagna (nella Presolana, in provincia di Bergamo, ndr), puoi spiegarci come sei arrivato a questa decisione? Inoltre, come ha cambiato, o modellato, la tua sensibilità artistica e umana la vita accanto alla Natura e alle montagne?
Dal 1990 vivo nei luoghi che frequentavo sin dall’età delle scuole elementari. Ero molto legato alla Presolana e alle sue terre che mi hanno aiutato a fare i primi passi in montagna, nei boschi, tra le rocce, sulla neve, tra antiche vallate un tempo ghiacciai, oppure nelle terre camune, vicino alle quali vivo. Ovviamente, ho avuto e ho questa grande possibilità di vivere una conversazione quotidiana fatta di tanti momenti, di legami forti con luoghi, anche singoli angoli e certe rocce oppure alberi, vallettine. Diciamo che spesso ho ricevuto dei messaggi favolosi che ho provato a trasformare in quello che ho poi chiamato “Il durante eterno delle cose”, nel caso dell’ultimo lavoro. Ma questo legame mi ha anche spinto a darmi da fare attivamente, spesso esponendomi, per provare a far riflettere su come ci relazioniamo al territorio e sul perché continuiamo a fargli del male. Il che equivale a fare del male a noi stessi. Difficilmente avrei lanciato un libro come ‘Diritti della Natura Italia’ se non fossi venuto a vivere in un luogo così.
Il tuo ultimo libro (Il durante eterno delle cose, Feltrinelli) è una pubblicazione digitale, in formato e-book: hai contemplato in questa scelta anche le implicazioni ecologiche rispetto alla classica forma cartacea? Da persona attenta alle tematiche ambientali, credi sia giusto, eticamente, proseguire in questa direzione?
Sono consapevole dell’impatto ecologico dell’uso della carta: non credo non si debbano stampare libri, semplicemente – come per ogni altro prodotto industriale – si è entrati da almeno vent’anni in una spirale perversa per cui si stampano troppi titoli solo per fatturare qualcosa, anche se non vendono: non si sfugge al capitalismo, che divora se stesso. Ma sono anche consapevole del fatto che la filiera dei dispositivi elettronici comporta un’impronta ecologica enorme. Per questo la mia è stata una considerazione legata alla natura della (coraggiosa) collana Zoom di Feltrinelli, dove ho già altri due titoli nella narrativa, nella serie Poesia. Quando mi è stata offerta l’opportunità ho pensato che sarebbe stato bello perché la poesia è una forma antichissima di espressione – se per poesia intendiamo quella cosa dove ogni parola conta – che si unisce alle più innovative forme di fruizione della parola, legate al mondo digitale. Così ho visto che la poesia è davvero perfetta da leggere su smartphone, tanto nelle librerie è spesso assente o ridotta ai classici e a pochissimi contemporanei. E’ un esperimento, anche se ovviamente io non ho pensato a questo quando scrivevo. Anzi, lavoravo terapeuticamente per aiutarmi in questo guado delicato della mia vita dove le acque chete sembrano a volte nascondere insidie pericolose.
Hai dedicato Il durante eterno delle cose a due artisti e poeti nativi americani, John Trudell e Lance Henson: in che modo la cultura degli indiani d’America ha influenzato il tuo immaginario e il tuo pensiero?
Quando ho letto Lance Henson la prima volta (1989), ma soprattutto quando poi ho avuto in dono di lavorare con lui prima e John Trudell dopo (introducendolo in Italia), ho trovato nella loro e nell’arte nativa una corrispondenza straordinaria che mai avevo trovato nella nostra tradizione letteraria. Non mi chiesi perché: semplicemente decisi che quel modo di esprimere la relazione con il cosmo era anche il mio, e che dunque non ero da solo. Anzi. Noi siamo forme della Terra: un verso di John Trudell che esprime esattamente ciò che sento sin dall’adolescenza.
La tua raccolta poetica contiene oltre sessanta liriche, raccontaci le origini e la gestazione della tua opera.
Dai miei libri di narrativa era evidente che sarei arrivato qui (ovvero, per me, che sarei tornato alla sorgente della mia ispirazione). Amo l’espressione breve, folgorante. Così, durante l’autunno e l’inverno, mi sono ritrovato a scarnificare la scrittura. E ho fatto tutto sui miei taccuini, come sempre. Stavo scrivendo la seconda stesura di un romanzo e ho capito che la poesia aveva urgenza e doveva passare davanti. Ho seguito questa pista e ho trovato cose veramente incredibili, uscivano, sgorgavano, non si fermavano più e così ho recuperato una decina di poesie scritte in passato (alcune anche pubblicate nei miei libri di narrativa) e, arrivato a fine 2015, ho inviato un manoscritto al mio agente – ma puramente per fargli un regalo natalizio. Lui mi ha detto, “ci siamo, dobbiamo pubblicare” e da lì abbiamo ragionato sul fatto che Tiziano Fratus e Fabio Di Pietro da Feltrinelli Zoom Poesia mi avevano, in effetti, stimolato a sottoporre qualcosa di poetico. Il processo è stato rapidissimo. Sono ancora stupito dall’esistenza di “Il Durante Eterno Delle Cose” (titolo che avevo da dieci anni).
Ti sei definito un ‘geopoeta’, cosa significa per te?
Direi che è semplice. Un poeta della geografia. Ovvero, un autore che utilizza ogni parola in tutto il suo peso specifico, il che nei libri di narrativa – dove non mi piace annacquare la scrittura – a volte “rallenta” la lettura (volutamente!) e che lo fa perché la geografia, il territorio, il rapporto con tutto ciò, è in assoluto ciò che più conta per riconnetterci a quello che ci ha dato origine, ovvero la vita – la natura. Lo faccio sempre, anche nei reportage e negli articoli di giornale. Sono fatto così. Vivere nella propria mente o nei libri non ha senso. E’ roba da intellettuali. E io non sono un intellettuale. Sono un geopoeta. Vivo anche con la mente e anche con i libri. Ma preferisco vivere, come diceva Jack London.
La Redazione